cosa posso insegnare io?

Riflessioni sulla pratica e l’insegnamento

Ultimamente mi sto chiedendo se sono davvero pronto a trasmettere lo Yoga nella sua pienezza. Non tanto come questione tecnica, quanto come responsabilità: cosa significa insegnare, a chi mi rivolgo davvero, e fino a che punto posso accompagnare qualcuno in questo percorso?

Ho provato a mettermi alla prova, immaginando di dover spiegare ciò che so a una classe ipotetica. E qui ho notato una cosa curiosa: senza sforzo, la mia mente va verso persone che somigliano a me,chi ha già una certa agilità, chi pratica arti marziali, o chi, pur essendo principiante, arriva allo Yoga con un interesse genuino. Ma se penso a un pubblico più ampio,anziani, bambini irrequieti, culturisti abituati alle ripetizioni meccaniche, persone diffidenti o addirittura contrarie allo Yoga,ecco che mi rendo conto dei miei limiti. Non è solo una questione di competenza tecnica: è la difficoltà di trovare un linguaggio comune, di adattare la pratica a chi non parte dalle mie stesse premesse.

Da un po’ di tempo faccio un piccolo esperimento. Quando qualcuno mi parla del proprio corpo,dei suoi movimenti, dei suoi dolori, delle sue fatiche digestive o persino di una sbornia,provo a chiedergli: “E se provassi ad affrontare questa situazione in un altro modo?”. Non per dare risposte, ma per vedere se riesco a trasmettere anche solo l’idea che esiste un’alternativa. I risultati, però, sono spesso deludenti. La maggior parte delle persone preferisce confermare le proprie abitudini piuttosto che metterle in discussione. Ho capito che, per aprire un varco, bisogna prima creare un clima di fiducia, quasi di complicità, dove l’ascolto diventi possibile. Senza questo, anche il suggerimento più semplice rischia di essere ignorato.


E poi c’è la domanda sulle tecniche che posso davvero insegnare. Non mi interessa elencare asana o sequenze, ma piuttosto cosa, di ciò che ho imparato, mi ha davvero cambiato,e che quindi sento di poter condividere con sincerità.

Ciò che mi preme trasmettere è, prima di tutto, la fisicità dello Yoga: quel senso di pace mentale e benessere profondo che rimane dopo la pratica, come se il corpo avesse trovato un ordine naturale. Poi c’è il respiro, questo alleato silenzioso che può sciogliere tensioni fisiche, liberare blocchi emotivi, chiarire la mente quando è confusa, proteggerci dalla paura o dall’impulsività. Il respiro come ancora, come strumento per trovare equilibrio anche quando il corpo resiste o la mente si agita.

Un altro aspetto fondamentale è la consapevolezza del corpo: imparare a percepire quali parti sono coinvolte in una posizione, come attivarle senza sforzo inutile, come dosare l’energia. E, soprattutto, la percezione dei progressi,non come obiettivo da raggiungere, ma come conferma che ciò che è reale è possibile, che i limiti si possono esplorare senza paura, che i benefici arrivano quando meno te li aspetti.

Potrei insegnare il Saluto al Sole in tutte le sue varianti, sì, ma più che la forma mi interessa trasmettere l’essenza: quel momento in cui il movimento e il respiro si sincronizzano, e tutto il resto,pensi, preoccupazioni, giudizi,scompare.


La meditazione, invece, è un territorio in cui mi sento ancora un principiante. Non ho la presunzione di insegnarla. Posso al massimo guidare qualche pratica di rilassamento, di riscaldamento, di pulizia del corpo o di concentrazione, ma so che c’è ancora tanto da esplorare. E va bene così: l’insegnamento, del resto, nasce anche dal riconoscere i propri limiti.


Ho attraversato due crisi che mi hanno costretto a ridefinire il mio rapporto con lo Yoga.

La prima è stata separare la pratica dall’insegnante. Ho sempre nutrito grande ammirazione per chi mi ha guidato,è sano, necessario, quasi inevitabile. Ma ho dovuto imparare che lo Yoga non è la persona che te lo insegna. È più grande di qualsiasi maestro, di qualsiasi corso. Ogni volta che ho cambiato insegnante o lasciato un percorso, ho sentito questa fatica: come fare a non confondere la pratica con chi me la trasmette? Non ho ancora trovato una risposta definitiva, ma so che un rapporto sbilanciato,troppa dipendenza, aspettative non dette, fraintendimenti,può avvelenare la pratica stessa. L’incoraggiamento di un buon insegnante è una benedizione, ma se manca la chiarezza, anche il suo entusiasmo può diventare un ostacolo.

La seconda crisi è stata separare il dolore dalla pratica. Per mesi ho dovuto fermarmi a causa di dolori che mi bloccavano: la schiena lombare, per aver sollevato pesi nella posizione sbagliata; la spalla destra, logorata dall’uso ossessivo del mouse; il collo e le spalle, irrigiditi da ore passate chino in avanti. È stato frustrante, perché lo Yoga era diventato anche un luogo di gioia,le lezioni settimanali, quel ritmo che mi faceva sentire vivo. Ma in quei momenti di stop forzato ho imparato qualcosa di prezioso.

Ho capito che il dolore spesso nasce da un gesto sbagliato, frettoloso, fatto senza ascolto. Magari una posizione che conosciamo bene, che diamo per scontata, e che ripetiamo distrattamente,appena svegli, dopo ore seduti, senza scaldarci, senza respirare. Ho imparato a cogliere i segnali premonitori, quel fastidio sottile che avvisa: “Stai per fare qualcosa che il tuo corpo non vuole”. Ho scoperto che anche nei movimenti più banali,prendere una borsa, girarsi nel letto, stare seduto,possiamo tradirci, usare il corpo in modo scorretto senza rendercene conto.

E poi c’è una verità scomoda: quando il dolore è acuto, la pratica non può essere la stessa. Non si tratta di forzare, ma di adattarsi. Respirare in modo diverso, modificare le posizioni, accettare che in quel momento il beneficio sarà altro,magari solo quello di non peggiorare le cose.


Alla fine, forse, insegnare lo Yoga significa anche questo: riconoscere i propri limiti, sia come praticante che come guida. Non avere tutte le risposte, ma saper fare le domande giuste, a sé stessi e agli altri. E accorgersi che, a volte, la lezione più importante è proprio quella che arriva quando si bada solo alla risposta.